
Ma arrivano migranti alle Canarie? La risposta breve è SI, sin dal 1994. Di questo fatto però si continua a parlare troppo poco.
A volte sentiamo la parola “invasione” ma per capire se questa ha una veridicità è bene fare affidamento ai numeri: nel 2019/20 sono arrivati alle Canarie 24.000 migranti e 15 milioni di turisti.

Ora però facciamo un passo indietro. Vi racconto la mia storia. Mi chiamo Ileana e, a causa delle aggressioni ai volontari e poi a causa della pandemia, da un paio d’anni non sono più stata a lavorare nei campi profughi in Grecia.
Quando a Torino qualche tempo fa ho incontrato Silvia però, lei mi ha parlato della sua prossima partenza per Tenerife con due altre donne. Subito mi è ritornato a galla un certo fuoco che mi brucia dentro e spontaneamente le ho chiesto se mi potevo aggregare a loro! Detto, fatto e così qualche giorno dopo mi sono ritrovata all’aeroporto Malpensa con la carta d’imbarco in mano.
Dopo un paio di avventure spiacevoli, tipo l’auto noleggiata che ci lascia a piedi dopo soli 3 km, abbiamo preso possesso dell’appartamento che per due settimane è divenuto il nostro campo base.
Abbiamo preso subito contatto con un paio di persone che si occupano dei migranti. A Tenerife ci sono diverse organizzazioni che lo fanno, sono gruppi di cittadini che si sono mobilitati spontaneamente e da alcuni anni fanno quello che appunto dovrebbero fare il governo o le grandi organizzazioni umanitarie.
Una volta ambientate Candelaria, detta Cande (la Madonna della Candelora è onnipresente sull’isola) ci ha raccontato che cosa avremmo potuto fare e ci ha presentato man mano le diverse persone lì presenti.
Già il primo giorno abbiamo partecipato alle lezioni di spagnolo che in una casa parrocchiale diversi insegnanti solitamente danno ai migranti. Le persone arrivate alle Canarie sono per la maggior parte del Senegal e del Gambia. Siccome il viaggio passando dal Marocco è diventato quasi impossibile (Ceuta-Melilla è ormai impraticabile) i migranti prendono le „pateras“, cioè di fatto dei barconi di legno nel loro paese e stanno in viaggio in mare dagli 8 ai 10 giorni. Se la sorte li assiste poi arrivano a Tenerife o sulle altre isole. Purtroppo non sono rari i casi di incidenti e appena arrivate sull’isola abbiamo appreso che solo il giorno precedente erano morte annegate 10 persone.

Giorno dopo giorno e poco per volta, mentre siamo lì veniamo sempre più a conoscenza della situazione a Tenerife.
Situazione che vede le pateras che arrivano dal Marocco come piccole barche con al massimo 50 persone, mentre quelle dal Senegal grandi e con a bordo oltre 100 persone. Non c’è una frequenza costante di arrivi, ma si sa che ne stanno arrivando più dello scorso anno, periodo in cui comunque la tratta non era per nulla poco trafficata.
All’arrivo dei migranti la polizia nazionale con un traduttore intervista le persone, consegnando loro un foglio con il numero di identificazione. A partire da quel momento inizia il processo di ripartizione. C’è chi teme di essere rimpatriato, per cui alcuni lasciano il centro in cui sono stati portati perché la situazione lì è molto difficile, perdendo però così il diritto al cibo e all’aiuto amministrativo.
Via mare quest’anno sono arrivate 17.000 persone, si parla di 900 morti, ma è solo la cifra conosciuta, quanti in realtà ce l’hanno fatta nessuno lo sa. I dati ufficiali dell’IOM parlano di 1.176 decessi nella tratta verso le isole Canarie solamente nel 2021.

Dalla Croce Rossa (ed è l’unica volta che sentiamo parlare di questa organizzazione) le donne e i bambini vengono portate in un ex-carcere della capitale, per proteggerle da violenza, prostituzione o tratta di esseri umani. E qui apprendiamo le prime notizie che ci sconvolgono. Per evitare che donne facessero passare per propri bambini magari incontrati durante il viaggio questi venivano subito separati, e dovevano attendere il risultato del DNA. Questa procedura durava quattro (4!) mesi in cui erano separati. Un anno fa un giornalista pubblica la denuncia di una donna alla quale hanno tolto il bambino, la cosa fa scalpore, iniziano grandi proteste e la legge viene cambiata. A questo punto le donne vengono fatte proseguire per la „Peninsula“ come viene chiamata la terra ferma spagnola. Colà viene concesso loro l’asilo e dopo 6 mesi possono richiedere il permesso di lavorare.
Gli uomini rimasti al sud, si costruiscono piccole capanne con teloni e assi. Nessuno oltre ai volontari li aiuta, per cui andiamo spesso a comperare carrellate di olio, riso, couscous, lenticchie, tonno, shampoo …
Gli uomini e i minori non accompagnati vengono mandati al nord dell’isola e rinchiusi in due campi, Las Raíces e Las Canteras. Quest’ultimo l’abbiamo visto solo da lontano, pare sia decente in quanto in muratura e più vicino all’abitato. Las Raìces viene gestito dalla ACCEM, una ONG di origine cattolica. All’inizio le condizioni in questi campi erano estremamente precarie; benchè oggi siano migliorate ci raccontano che in ogni capannone di tela si ammassano 30-50 persone, il cibo lascia molto a desiderare, l’acqua per la doccia – quando c’è è fredda, una volta al mese vengono distribuiti vestiti (ma non adatti alla stagione, e nel nord può fare molto freddo), possono uscire dalle 9 alle 19, ma se si assentano per più di tre giorni vengono espulsi dal campo. Quando piove la pioggia e il fango invadono i tendoni perchè il centro è nel bosco, in collina al margine della città. (proprio questo stà succedendo mentre scrivo queste righe, mi hanno mandato un video che lo dimostra)
Al Raíces, una struttura militare rimasta chiusa per oltre 30 anni e riaperta un anno fa, ci sono stati già 3000 uomini, al momento sono 600. Una agenzia di sicurezza controlla le entrate e il personale in generale si occupa soltanto di controllare ma non offre alcun sostegno. C’è un dottore solo e le infermiere sono 2 o 3. Nessun’altro ha accesso al campo, nessun volontario può portare aiuto. Una insegnante che dà loro lezioni di spagnolo si accampa in un campo vicino con una lavagnetta sulle ginocchia e gli „studenti“ si sdraiano su una coperta o siedono su un seggiolino ricuperato chissà dove. Apprendiamo che recentemente un ragazzo è stato espulso perchè visto parlare con un giornalista. Se qualcuno deve stare in quarantena viene rinchiuso per giorni in un localino senza accesso con l’esterno in totale isolazione. Sappiamo di 4 ragazzi che quando sono usciti erano traumatizzati. Tempo fa, quando la situazione era insostenibile, scoppiarono lotte e litigi nel campo; gli inservienti denunciarono alla polizia quattro ragazzi coinvolti, ora sono in prigione e in questi giorni verranno processati e rischiano 11 anni di galera.
Con le donazioni raccolte prima della partenza andiamo parecchie volte a comperare soprattutto pantaloni caldi, mutande (tante!), calzini e scarpe, ci accostiamo al campo e le consegnamo ai volontari che ogni giorno passano davanti all’entrata per vedere quali sono i bisogni più urgenti.
Qualche volta Cande ci chiede se possiamo accompagnare qualche persona nella città vicina perchè hanno appuntamento dal dentista; una volta portiamo una giovane donna nigeriana all’ospedale dove deve subire un intervento (lei vive qui da diversi anni e a sua volta aiuta i nuovi migranti) e così la portiamo alla capitale. Ormai conosciamo a memoria il tragitto sud/nord (circa 80 km), anche se a volte pascoliamo alla più bella, le indicazioni per il traffico sono complicate e diverse da quelle a cui siamo abituate sul continente, per cui una di noi guida e l’altra funge da co-pilota, (meritandosi l’apprezzamentodelle due che siedono sul sedile posteriore) navigatore alla mano e fa del suo meglio per districarsi fra rotonde e segnalazioni poco comprensibili.
Uno dei giovani che danno lezioni di spagnolo a quelli rimasti al sud (in tende sulla spiaggia o in piccoli appartamenti) è docente all’università di Santa Cruz e ci invita ad un convegno da lui tenuto sulla migrazione (il tema: Può l’arte contribuire all’integrazione?) che si rivela molto interessante e ci fa conoscere diverse persone. Viene anche proiettato un documentario dal titolo „Stolen Fish“
(che suggerirò a Lugano per il prossimo Festival del Film dei diritti umani). Per me è una rivelazione e mi fa capire perchè certe situazioni in Africa (dove non ci sono guerre aperte) possono spingere persone a lasciare il proprio paese in cerca di fortuna ben sapendo che rischiano la loro vita. Il film è girato in Gambia, un paese al sud del Senegal che ha la forma di un budello. La gente lì vive della pesca nel fiume che scorre lungo tutto il paese. Da qualche tempo grossi pescherecci cinesi si piazzano davanti all’imboccatura del fiume e con i loro potenti mezzi portano via in mezza giornata quello che i pescatori indigeni pescavano in una settimana. Risultato: la popolazione è privata del principale sostentamento e ..fa la fame. In genere il figlio maggiore quindi si sente in dovere di partire verso l’Europa per riuscire a sfamare la sua famiglia. La maggior parte di quelli che emigrano non pensano di andare in Germania, in Belgio o in altri paesi. Magari hanno sott’occhio un loro concittadino che in Spagna è riuscito a trovare un lavoro e spedisce qualche piccola somma alla famiglia e tentano la fortuna. La loro meta è la Spagna, dove sperano di trovare un qualsiasi lavoro per un po’ di tempo e guadagnare qualcosa.
Un’altro incontro molto bello è stato a Tegueste, dove vivono due signore sessantenni, una psicologa e una insegnante, che spontaneamente hanno incominciato a cucinare a casa loro per alleviare la fame di chi arrivava. Questa azione dura parecchi mesi, a cui si sono aggregate un paio d’altre persone. I negozi della cittadina danno il loro contributo, l’atmosfera in paese si fa solidale, i media raccontano e così anche chi all’inizio li criticava cambia opinione. Non dimenticheremo mai queste due donne allegre e vivaci; Maria e Carmen vengono da noi battezzate Cip e Ciop, sfacciatamente ma con tanto affetto!
Facciamo anche conoscenza di alcuni senegalesi che vivono qui da molti anni che hanno un lavoro, famiglia e fanno di tutto per aiutare i loro connazionali.
Ripenso a quanto ha detto Fran, il docente universitario:
Non siamo di fronte ad una crisi migratoria ma di fronte ad una crisi del sistema dell’accoglienza.
In questa situazione questa parola è un insulto al significato dell’accoglienza.
Il campo Las Raíces è un buco nero dei diritti umani.
La migrazione è stata resa illegale, ma la libertà di migrare deve essere legale e permessa a tutti!