La doppia morale dell’Europa verso i profughi


Le porte dell’Europa sono aperte per i profughi”. Abbiamo dovuto attendere la guerra alle porte di casa per sentir pronunciare ai rappresentanti delle istituzioni europee, così come a molti leader nazionali, le prime parole di buon senso, finalmente in linea con il diritto internazionale, da alcuni anni a questa parte.

La stessa attivazione della Direttiva sulla protezione temporanea, lettera morta dal 2001, ha il sapore del miraggio per chi, come Oxfam e tante altre organizzazioni della società civile, ne aveva chiesto ripetutamente l’applicazione in altre situazioni, tra cui la recentissima, e tutt’altro che sopita, crisi afghana.

Come singoli e come organizzazione, siamo ovviamente scioccati da quanto sta avvenendo in Ucraina, e non faremo mancare la nostra solidarietà e il nostro impegno alle persone in fuga. Tuttavia siamo costretti a ricordare che i conflitti hanno ovunque lo stesso impatto, a prescindere da quanto li percepiamo vicini o lontani. Sempre producono morte e distruzione, sempre costringono i civili a una fuga precipitosa e lacerante. Dunque la risposta umanitaria e quella politica non possono essere etnicizzate, riservata solo ad alcuni: pena lo scivolamento verso aree molto buie della storia e del diritto.

Purtroppo, stiamo assistendo esattamente a questo. Profughi afghani, iracheni, siriani, tra cui moltissime famiglie con bambini, sono in questo momento arbitrariamente detenuti nei campi profughi in Grecia, o lasciati affogare nell’Egeo dopo essere stati illegalmente respinti, come ha documentato la sconvolgente inchiesta di The Guardian di pochi giorni fa. Sono brutalmente ricacciati indietro dalle polizie di confine lungo la rotta balcanica, in una girandola di violenze e abusi già largamente documentata, purtroppo senza sortire alcun effetto. E, grazie all’accordo del nostro governo con la Libia, ormai più di 80.000 persone in fuga dai conflitti e dalla povertà dell’Africa subsahariana sono state riconsegnate ai torturatori delle carceri di Al Harsha e Bani Walid, per poi essere rivendute ai trafficanti di esseri umani.

In questi casi, però, nessuna apertura di confini, nessun intervento normativo a tutela di civili disperati.

Il confine polacco sta dando in questi giorni una plastica rappresentazione di ciò. A Medyka e Przemysl, cittadine polacche vicine al confine ucraino, i profughi in fuga da Leopoli vengono accolti come è giusto che sia: con sollecitudine e grande dispiego di mezzi, rapidamente organizzati. Meno di 500 km più a nord, sempre in Polonia ma al confine con la Bielorussia, da mesi stiamo invece assistendo all’esercizio di una violenza inaudita contro i profughi (questa volta però siriani, afghani, iracheni) che cercano di attraversare il confine, picchiati, bagnati dagli idranti della polizia a temperature sotto lo zero, affamati e assetati. Un numero imprecisato di loro, tra cui numerosi bambini, è già morto di freddo nei boschi al confine. In quelle zone solo la popolazione si è auto-organizzata, accogliendo i fuggiaschi in case segnalate da lanterne verdi alle finestre, portando coperte e viveri nei boschi, permettendo insomma alle nostre coscienze di non sprofondare. La risposta della UE, in questo caso, è stata di considerare i profughi “minacce ibride”: armi umane usate dal regime di Lukashenko, da cui l’Europa ha il diritto di difendersi.

Ci auguriamo con tutte le nostre forze che la crisi ucraina faccia scrivere all’Europa pagine finalmente nuove per quanto riguarda la tutela e la protezione dei rifugiati. Ma le conclusioni del Consiglio straordinario UE di domenica scorsa contengono già alcuni elementi preoccupanti: il rafforzamento delle misure di controllo e registrazione ai confini, anche tramite Frontex, e la prevenzione delle minacce ibride tramite l’intensificazione di misure di intelligence e di cooperazione. Lo slancio di solidarietà sarà dunque compensato da nuove misure restrittive? Come proseguiranno le discussioni sull’EU Asylum and Migration Pact in questo nuovo contesto?

L’Europa sta dimostrando in queste ore di avere la volontà e i mezzi per accogliere degnamente i rifugiati, e di questo siamo felici. Se però fossi una cittadina ucraina in fuga, cercherei di mettermi al sicuro prima possibile: prima che i flussi aumentino troppo, l’emotività di questi primi tempi scemi, l’opinione pubblica e i partiti ricomincino la litania del “non possiamo accoglierli tutti” e i profughi ucraini diventino, semplicemente, profughi.

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