Baobab, il presidente rischia una condanna pesantissima: così si criminalizza la solidarietà

Erasmo Palazzolo su Il Fatto Quotidiano ci ricorda dell’accusa che pende sulla testa di Andrea Costa.

Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è l’accusa pesante che pende sul presidente del Baobab, Andrea Costa. Il reato non è cosa da poco e le eventuali pene vanno dai 6 ai 18 anni di reclusione. La ragione sembra incredibile ed è legata a un episodio accaduto nell’ottobre del 2016 quando Costa, insieme ad alcuni volontari del Baobab, avrebbe aiutato 8 ragazzi sudanesi e uno ciadiano ad acquistare i biglietti per raggiungere il campo della Croce Rossa a Ventimiglia. Il tutto accadeva all’indomani dell’ennesimo sgombero della tendopoli adiacente al centro di prima accoglienza di via Cupa a Roma il cui risultato era oltre 300 persone senza un rifugio in cui passare la notte e per le quali Costa e i volontari immediatamente si attivarono.

Un reato di solidarietà gravissimo. Un atto criminale, insomma.

Baobab nasce nel 2015 e, sostanzialmente per strada, senza il supporto delle istituzioni locali, in questi anni ha offerto soccorso e assistenza a donne, uomini e bambini che nel corso dei loro lunghi viaggi transitano a Roma peraltro spesso diretti verso il nord Europa. L’organizzazione umanitaria in questi anni ha cercato, nonostante i ripetuti sgomberi, di sopperire ai gravi deficit strutturali e organizzativi delle politiche sociali locali fornendo supporto a tutti coloro che giunti nella capitale si trovano senza alcuna accoglienza, assistenza né luogo sicuro dove dormire o anche solo riprendere fiato. In questi anni Baobab ha assistito diverse centinaia di persone fornendo cibo, vestiti e medicine, contando sulle forze di una rete di volontari e attivisti che si sono impegnati nel quotidiano nel tentativo di colmare mancanze strutturali gravi.

Eppure accade di nuovo. Ancora una volta, in questi anni di principi capovolti e di messa in discussione di valori fondamentali che dovrebbero essere indiscutibili, siamo costretti ad assistere all’ennesimo episodio di criminalizzazione della solidarietà, all’attacco pretestuoso che mira a smontare modelli di approccio umanitario non allineati a quelli governativi, dimostratisi peraltro ad oggi deficitari e fallimentari. E così coloro che s’impegnano nella difesa dei diritti umani e si schierano dalla parte dei più vulnerabili, si trovano attaccati, considerati alla stregua di criminali.

Il caso che coinvolge il Baobab è stato attribuito alla DIA, Direzione Distrettuale Antimafia, come spesso è accaduto per alcune inchieste che hanno visto coinvolte le ong che operano soccorso in mare. E quindi via libera a intercettazioni, pedinamenti, indagini fiume – finite in un nulla di fatto – con i migliori strumenti di cui disponiamo per scovare i peggiori criminali, coloro che si occupano di chi nessuno si preoccupa, nemmeno lo Stato.

Un’abitudine grave e, diciamocelo, ormai inaccettabile.

Tanto più ora, che la straordinaria gestione di arrivi dei profughi ucraini in fuga dal conflitto ci sta dimostrando quanto si sia in grado di realizzare, anche in tempi brevissimi, un’accoglienza sostenibile e dignitosa, seppur numericamente significativa.

C’è da chiedersi allora se non abbia più senso, e non sia più giusto, trovare una modalità non di contrasto ma di collaborazione virtuosa con le realtà che si occupano di solidarietà e che hanno il coraggio di esplorare nuovi modelli di inclusione. Diversamente questi attacchi infondati fanno parecchio pensare oltre che scatenare un profondo senso di tristezza per la nostra inadeguatezza rispetto all’accoglienza delle persone che arrivano nel nostro Paese.