Le guerre sono uguali ma i profughi no: se la comunicazione si arrende alla propaganda

Riportiamo qui di seguito un’interessante riflessione che fa Daniele Chieffi partendo proprio da una foto. Non aggiungiamo altro e vi lasciamo alla lettura…

Vedete differenze fra le due foto? Si tratta di due immagini di profughi di guerra. Donne, bambini, i visi sconvolti e spaventati, con i segni della disperazione, della fatica e degli stenti. Eppure la differenza c’è, è fattuale: la prima immagine ritrae ucraini, la seconda siriani. Questo, da un punto di vista umano non dovrebbe in realtà fare alcun tipo di differenza eppure la fa. Il conflitto siriano è rimasto per un decennio impantanato nei sottoscala del sistema mediatico e anche quando scoppiò, non provocò alcuna ondata di indignazione collettiva in Occidente (o comunque niente di neanche paragonabile a quella scatenata dalla guerra in Ucraina). Eppure anche lì morivano (e muoiono) civili, intere famiglie, bambini sotto le bombe e a milioni fuggivano (e fuggono) per salvarsi dalla ferocia della guerra.

Ma il dato c’è: i profughi ucraini sono “più profughi” di quelli siriani. Per i primi l’intero Occidente si è mobilitato. Chi prima aveva serrato le frontiere o era fermamente contro l’immigrazione, ha spalancato le porte e i “cuori”. Il sistema mediatico è ossessivamente concentrato sulla guerra e sui civili che vengono barbaramente uccisi o costretti a fuggire. Certo, il conflitto Ucraino è la prima guerra nel cuore dell’Europa da decenni (ragionando dal conflitto balcanico e derubricando Crimea e Donbass a conflitti locali), ha implicazioni enormi dal punto di vista geopolitico, molto più profonde e globali del conflitto siriano, che impattano direttamente sulla nostra vita (vedi il tema energetico) e ci mettono le “mani nelle tasche”. Ma in ogni guerra si muore allo stesso barbaro modo e in un mondo trasparente e interconnesso, dove tutti vedono tutto e giudicano tutto non dovrebbe più esserci spazio per l’oblio della violenza e dell’ingiustizia, eppure c’è. Internet, il web dovrebbe aver disintermediato la nostra visuale della realtà, permettendoci di sapere anche ciò che il mainstream mediatico non ci può (o vuole, secondo alcune teorie) far sapere. Invece non è così: i profughi ucraini sono “diversi” da quelli siriani.

Siamo tutti “geneticamente” razzisti? No, non è un problema di razzismo ma di percezione, reputazione, empatia, propaganda e polarizzazione. Ma andiamo con ordine. I profughi siriani sono diversi da noi: l’aspetto fisico, l’abbigliamento, i segni del credo religioso, l’ambiente in cui si muovono ci sono alieni e ce li fanno percepire come “diversi”, altro da noi, appartenenti, direbbe Tajfel, a un outgroup. Gli ucraini ci somigliano: l’abbigliamento è il nostro, i visi, i colori sono come i nostri, le loro strade potrebbero essere quelle delle nostre città, i bambini sono identici ai nostri. Inoltre i siriani per gli occidentali sono “mediorientali” o più genericamente “arabi”, con tutti i costrutti archetipici che, dal punto di vista reputazionale, questo comporta. Gli ucraini, invece sono “europei”. Siamo di fronte a potenti dinamiche di identificazione e paura. Ci identifichiamo nelle vittime di un conflitto che, per la prima volta sentiamo minacciosamente vicino, in grado di “entrarci in casa”, di sconvolgere i nostri equilibri economici e di mettere a rischio il nostro sistema di vita.

Niente di nuovo, quindi: Similes cum similibus congregantur (con accezione neutra) e in un mondo trasparente come l’Infosfera, siamo dentro al conflitto, dal punto di vista comunicativo e quindi percettivo, siamo bombardati da immagini e racconti in tempo reale e siamo continuamente esposti a questi elementi identificativi. Parteggiare diventa una sorta di reazione istintiva e obbligata. Ma è proprio sulla visibilità che si evidenziano le vere novità. Chi o cosa costruisce la realtà che abbiamo davanti agli occhi?

Come la Storia ci insegna, ogni guerra ha la sua narrazione o meglio le sue narrazioni: una per ogni parte in causa. Narrazione costruita in modo da disegnare la propria parte, i propri combattenti come eroi, difensori del suolo patrio o vendicatori di torti e l’altra parte come i nemici, spietati assassini o invasori. Sin da quando i conflitti si combattevano all’arma bianca esiste questa tendenza alla narrazione di parte, propagandistica e quello ucraino non fa differenza. Il sistema mediatico delle due parti costruisce un mainstream, una narrazione di parte. La differenza è che quelle narrazioni erano, per le popolazioni di ciascuna parte, le uniche e la costruzione della realtà e il relativo senso e significato si basavano su queste. Il conflitto ucraino non è più così: l’infosfera e la sua trasparenza ci mette in contatto disintermediatamente con tante narrazioni diverse, con immagini, video, storie , pareri e analisi che sviluppano emozioni dirette e non mediate, interpretazioni, costruzioni di senso, innescando una forte polarizzazione, almeno nel campo Occidentale (che ha ancora una genetica democratica), dove l’infosfera mantiene la sua trasparenza e non subisce censure preventive che la rendano opaca e quindi riportino le dinamiche a quelle “classiche” della comunicazione di massa. Basti pensare alla polarizzazione “Pro Putin – Contro Putin”, ben radicata in Occidente (dove entrano in gioco anche dinamiche anti americane, tra l’altro).

È la vittoria della libertà della Rete contro la propaganda? Siamo noi a costruirci la nostra rappresentazione della Realtà e non più i Ministeri della Propaganda? No. Non dimentichiamo che la Rete non è libera, non è un ambiente de-centrato e di proprietà collettiva, è una tecnologica governata da un oligopolio e il controllo delle piattaforme e delle dinamiche algoritmiche significa controllo della percezione. La propaganda esiste, è forte, così come la pressione all’omologazione dei messaggi, sia sul sistema mediatico che su quello algoritmico. Ma la polarizzazione è la prova che il “grande vecchio” ha perso forza e che non esiste più un controllo totale come ai tempi del Minculpop e di Goebbles e l’unico modo per ottenerlo sarebbe “spegnere la Rete” come d’altronde fanno i Paesi autoritari, Russia in primis.
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