Morire profugo e suicida a 19 anni. Tripoli vale come Kiev

Riportiamo qui di seguito una riflessione di Nello Scavo su Avvenire

Ci sono profughi e profughi.

Dipende dalla geografia? O da certe variabili cromatiche? Più l’epidermide è scura e più le loro sorti ci sembrano lontane, al punto da pagare di tasca nostra chi si incarica di tenerceli fuori dai piedi?

Mohamed era un profugo. Era scappato dal Darfur, non esattamente un posto tranquillo. Sognava l’Europa, ma si sarebbe accontentato anche di un trasferimento in un altro Paese africano sicuro individuato dall’Onu. Invece è rimasto incastrato in Libia. Torturato e abusato, come molti. Mohamed non se l’è più sentita di prestarsi ai giochi degli aguzzini di Stato stipendiati in euro. Ha preso una corda, ha fatto un giro intorno al collo. E si è lasciato andare. Aveva 19 anni.

Tripoli dista 1.000 chilometri esatti da Roma. Kiev quasi 1.800. All’Ucraina l’Italia invia armi. Anche alla Libia. Nel primo caso, per sostenere l’esercito che combatte l’aggressione di Mosca. Nel secondo, per impedire a profughi e migranti di raggiungere le nostre coste. Mohamed era uno di loro. Veniva da una provincia del Darfur, regione di mattanze per le quali a marzo, nel pieno della crisi ucraina, si è aperto un processo davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja. Mohamed era nel campo di prigionia di Ain Zara, uno di quelli tenuti in piedi dalle autorità generosamente sostenute da Roma e Bruxelles.

Anche la giustizia internazionale è gradita a giorni alterni. Quando Karim Khan, il nuovo procuratore dell’Aja, ha inviato gli investigatori in Ucraina, gli uffici stampa di leader politici e capi di governo europei hanno dovuto fare gli straordinari per inviare dichiarazioni alle agenzie di stampa, inondare i social di commenti, rilasciare interviste a sostegno della giusta causa contro i crimini di guerra commessi in Ucraina.

Quando, negli stessi giorni, sempre Khan consegnava al Consiglio di sicurezza Onu il suo rapporto sulla Libia, la reazione è stata il silenzio. Non per indifferenza. Ma per lasciar cadere le accuse. Eppure era solo aprile: «Gli abusi contro i migranti – si leggeva nel report dell’Aja – possono essere qualificati come crimini di guerra e crimini contro l’umanità ». Perché non ci fossero dubbi sulla corretta interpretazione, Khan parlava di «crimini commessi nei centri di detenzione». Strutture ufficiali sotto il controllo del governo. Quello di Ain Zara è tra i principali. Sono rinchiusi a migliaia, rastrellati dalla sbirraglia e consegnati al Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione. Uomini, donne e bambini. Non fa differenza.

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