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Il viaggio senza diritti lungo le rotte balcaniche: il…

Di Luca Rondi su Altreconomia

Un’iniziativa della rete RiVolti ai Balcani fa il punto su quanto accade e su come le persone in movimento, una volta arrivate in Italia, si vedano negare il diritto d’asilo e l’accesso all’accoglienza. Violenza e assenze di tutele continuano a essere i “frutti avvelenati” di una strategia europea che chiude le porte a chi è in transito

“Le violenze al confine sono nuovamente tornate a crescere. L’utilizzo di spray urticante, pallini di gomma sparati su persone inermi, giovani obbligati a mangiare le sigarette che avevano nello zaino, bambini divisi dai loro genitori. È il solito copione”. Giulia Moretto, attivista di No Name Kitchen (Nnk), descrive così quanto accade sul confine serbo-ungherese: da quella piccola porzione di confine, in cui un’alta rete metallica e un filo spinato separa i due Paesi, migliaia di persone, uomini, donne e bambini, ancora oggi tentano di entrare nell’Unione europea. La “rotta balcanica” -tante vie che collegano la Turchia al sogno europeo- vede il consueto cambiamento nelle traiettorie percorse dalle persone che tentano il game, come viene chiamato il tentativo di attraversamento della frontiera, in base a dove il confine sembra più permeabile. Quello che non cambia, però, sono la violenza e le chiusure realizzate dalle politiche di governi locali ed europei. Sabato 24 settembre la rete RiVolti ai Balcani ha fatto il “punto” su quanto accade nella regione dei Balcani. E non solo.

La “strategia” europea che vuole trasformare il diritto di asilo in un privilegio per chi è abbastanza forte da resistere ai soprusi non è attuata solamente dai Paesi autocratici dell’Est Europa. Così, quanto succede in Turchia, Grecia, Bosnia ed Erzegovina e Ungheria è collegato alle politiche di esclusione che troviamo anche nel nostro Paese. La “democratica” Italia oggi ostacola infatti sistematicamente l’accesso all’asilo su tutto il territorio. Come ricostruito anche su Altreconomia, chiedere oggi asilo per chi arriva in Italia via terra è un miraggio. “È come se ci fosse una sorta di colpa nel fatto di non essere stati soccorsi in mare o rintracciati nei pressi della frontiera – ha spiegato Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste (Ics)-. Per chi incontra le forze dell’ordine al suo arrivo l’amministrazione provvede a collocarlo in un centro e permettergli di chiedere asilo, tutti gli altri, invece, si scontrano contro un muro di gomma che è difficile da bucare”.

Da Trieste a Torino, passando per Milano, Piacenza, Roma: il copione si ripete. “È una strategia di deterrenza evidente, non possiamo parlare di inefficienza. Non si fa presentare la richiesta d’asilo alla persona di modo che questa non abbia diritto all’accoglienza nonostante questo sia un diritto previsto dal nostro ordinamento. Tanto che i tribunali amministrativi stanno condannando per inadempienza le questure e le prefetture. In certi casi si va anche oltre: si chiede ai richiedenti asilo di presentare il proprio domicilio. In un paradosso per cui chi dovrebbe darti un tetto su cui stare, te lo chiede”. È la frontiera burocratica, che oggi lascia all’addiaccio migliaia di persone. “Attualmente abbiamo 275 persone in strada che sono richiedenti asilo ma non vengono accolti – racconta Maddalena Avòn, operatrice legale di Ics-. Dov’è lo stato di diritto? Che tutela stiamo offrendo a queste persone? Vivo in prima persona la sensazione di frustrazione per chi, dopo anni di cammino, pensa di aver concluso il viaggio e si ritrova senza nulla”.

Quel che è certo è che non sono i “numeri” a giustificare la difficoltà delle amministrazioni nel disbrigo delle procedure burocratiche. Sono stati circa duemila gli arrivi a Trieste in agosto. Un numero più elevato rispetto ai mesi precedenti che diventa problematico per chi lavora nell’emergenza ma che in termini assoluti resta una briciola per un Paese, l’Italia, che ha tra le percentuali più basse di richiedenti asilo per abitante. Che l’Italia non sia Paese di arrivo ma di transito lo sa bene anche Martina Cociglio, operatrice legale di Diaconia Valdese che opera nell’alta Val Susa, a Oulx. Qui, a meno di venti chilometri dal confine, il rifugio Massi fornisce sostegno e un pasto caldo a circa 70 persone a notte. Ad agosto sono transitate circa 800 persone, in prevalenza provenienti da Afghanistan, Iran e Marocco e con un’elevata percentuale di minori stranieri non accompagnati. La polizia francese presidia i confini e respinge chi tenta di attraversare.

“Privazione della libertà personale, mancanza di assistenza legale, impossibilità di mediazione, nessun esame individuale della domanda d’asilo: queste sono le principali violazioni dei diritti di chi vuole raggiungere parenti, amici in un altro Paese dell’Ue -racconta Cociglio-. Chi arriva qui è convinto che non esistano più i confini militarizzati e le barriere che ha incontrato fino al giorno prima di quando non era nel nostro Paese. E invece non è così”. I controlli sono stati ripristinati nel 2015 con la giustificazione delle minacce legate al terrorismo: oggi vengono rinnovati ogni sei mesi da parte del Consiglio di Stato francese, senza motivazioni attuali e in contrasto con quanto previsto dal Codice frontiere Schengen. “Il paradosso è che ha più tutele chi arriva in Francia da un Paese terzo, via aereo, rispetto a chi arriva da un altro Paese dell’Ue. In aeroporto vengono riconosciuti molti più diritti che in frontiera. Il tutto con una base pretestuosa: l’Austria nell’aprile 2022 è stata condannata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per aver ripristinato per un periodo di tempo troppo lungo i controlli ai confini interni”.

Anche chi si vuole fermare e sceglie di tornare a Torino da Oulx, si scontra contro il “muro di gomma” dell’impossibilità di presentare richiesta d’asilo. Un’impossibilità che si riscontra anche nei porti italiani di Ancona, Venezia e Brindisi. Un altro “tassello” di una strategia di negazione del diritto d’asilo messa in atto dal nostro Paese. “Vengono respinti senza neanche aver messo i piedi sul territorio italiano -dice Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica-. Una volta intercettati sono riconsegnati al comandante della nave che li riporta al punto di partenza. Senza alcuna garanzia”.

Ed ecco il collegamento con quanto succede nei Balcani. Il punto di partenza è a Patrasso, in Grecia, dove le persone vivono la violenza della polizia sistematica verso chi vuole imbarcarsi tentando la traversata in container caricati su navi merci. “Vengono spessi chiusi in celle, a volte anche all’aperto, sotto il sole, e lasciati per ore senza un documento che giustifichi il loro trattenimento. Un ‘segnale’ che la polizia vuole mandare a tutti coloro che sono pronti a imbarcarsi”. Più in generale la Grecia continua a essere un “laboratorio per le politiche securitarie messe in atto dall’Ue”, spiega Andrea Contenta, ricercatore indipendente attivo nel Paese. “Il governo porta avanti una politica di apartheid nei confronti dei migranti. C’è una forte criminalizzazione della solidarietà e il tentativo di cambiare l’ordinamento giuridico per poter utilizzare i fondi dell’Ue per realizzare politiche illegali”.

Risalendo dalla Grecia verso i Balcani occidentali, le rotte percorse da chi è in transito sono cambiate. In Bosnia ed Erzegovina la situazione sembra più “tranquilla” rispetto al passato. Meno respingimenti al confine anche connessi a un cambio di approccio della polizia croata che permetterebbe alle persone di presentarsi nelle stazioni di polizia e ricevere un “foglio di via” con cui poter viaggiare e lasciare il Paese entro sette giorni. “È difficile capire il perché di questo repentino cambio di atteggiamento dal marzo 2022. Sicuramente la vicinanza delle elezioni nel Paese ha un’influenza su tutto questo”, racconta Tamara Cetkovic di Iscos Emilia-Romagna. In Bosnia ed Erzegovina le associazioni incontrano soprattutto famiglie provenienti dal Burundi, che scappano da una situazione molto violenta nel loro Paese, come ricostruito anche da Human rights watch, e che raggiungono in aereo la Serbia e poi tentano di entrare in Ue da diversi confini, oltre che minorenni provenienti da Afghanistan e Pakistan.

Lipa, il campo di confinamento “all’avanguardia” costruito anche dall’Ue, a cui RiVolti ai Balcani ha dedicato uno specifico dossier di approfondimento, oggi conta poche centinaia di presenze e probabilmente verrà sempre più utilizzato come hub per poter aumentare i rimpatri dei migranti verso i Paesi d’origine. Nonostante questo la criminalizzazione della solidarietà continua a colpire. “Il 22 settembre il Service for foreigners affairs del ministro degli Esteri bosniaco ha notificato alla nostra organizzazione uno sfratto per sgomberare una casa entro 48 ore che usiamo come appoggio per immagazzinare il materiale che arriva dalle donazioni -racconta Matilda Zacco di Nnk-. Un atto di intimidazione accompagnato da convocazioni presso le stazioni di polizia per essere interrogati. Sono venuti per trovare un motivo ‘illecito’ per giustificare lo sgombero: non hanno trovato nulla, ma l’obiettivo è stato comunque raggiunto”.

No Name Kitchen è attiva anche in Serbia dove nelle ultime settimane, come detto, si registra un aumento delle violenze. Al confine con l’Ungheria, da un lato, e con la Romania, dall’altro, le persone vengono brutalmente respinte dalla polizia. “È una violenza sistematica -racconta ancora Zacco-. Oltre alla polizia ungherese è presente anche quella austriaca, registriamo infatti moltissimi respingimenti a catena con le persone ‘riportate’ indietro dall’Austria. Abbiamo testimonianze di persone che hanno ricevuto la ‘benedizione’ cristiana e a cui sono state disegnate le croci sulla testa. È una situazione tremenda”. No Name Kitchen stima la presenza di circa 3mila persone nel Nord della Serbia: la difficoltà dell’attraversamento di quel confine, militarizzato e con la presenza di un’alta rete metallica, aumenta anche i profitti per chi contrabbanda i migranti. Il prezzo del confine sale, soprattutto per le famiglie.

Dalla Serbia o dalla Croazia, per chi arriva a Trieste dopo aver attraversato la Slovenia, comincia l’incubo italiano. Le riammissioni, la pagina buia del nostro Paese che ha visto nel 2020 oltre 1.200 persone respinte dal confine orientale verso le violenze della rotta balcanica, sembrano essere interrotte ma permangono gravi violazioni dei diritti. “Sì, è una frontiera in cui l’esercizio dei diritti fondamentali non è garantito -riprende Avòn di Ics- Si verificano situazioni gravi: minorenni registrati come maggiorenni nonostante la presenza di Ong al confine. E poi anche chi viene identificato come minorenne viene lasciato in strada”. Proprio in strada, in piazza della Libertà, continua il lavoro di Linea d’Ombra. “L’aumento degli arrivi e delle richieste degli ultimi mesi ci mette in difficoltà -spiegano Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir-. Questa piazza, la piazza del mondo, resta però il simbolo della resistenza. Di chi vuole cambiare le cose. È un patrimonio che resta di tutti e tutte”.

Festival Francescano 2022

Dal 23 a 25 settembre a Bologna, in Piazza Maggiore, c’è il Festival Francescano. Il programma completo dell’evento lo potete scaricare a questo link . Conferenze, spettacoli, workshop per dare…un’iniezione di fiducia! Nel momento storico forse più complesso dal dopoguerra a oggi – tra pandemia, crisi climatica, ambientale e politica – l’intera famiglia francescana sente forte la responsabilità di praticare atti di fiducia. Il festival è proprio questo.

Nato nel 2009 per celebrare gli 800 anni dell’approvazione della prima regola di san Francesco d’Assisi, Festival Francescano desidera riscoprire, far conoscere, attualizzare e concretizzare i valori di Francesco d’Assisi, nella convinzione che possano aiutare ad affrontare e a superare le tante crisi – di identità, politiche, di valori, ambientali – che caratterizzano la nostra quotidianità.

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Il collasso dell’accoglienza e l’abbandono dei richiedenti asilo. Il…

da AltraEconomia a cura di Gianfranco Schiavone 

Da luglio di quest’anno si sono quasi del tutto interrotti i trasferimenti delle persone dalle strutture di prima accoglienza di Trieste, Udine e Gorizia verso il resto del territorio. Risultato: centinaia di persone stipate in caserme o costrette all’addiaccio. “Una chiara violazione della norma”, denuncia Gianfranco Schiavone.

Tra il primo gennaio e il 19 settembre 2022 gli sbarchi sulle coste italiane sono passati dalle 43.274 persone dello stesso periodo del 2021 a 68.208, con un aumento del 58% circa (fonte ministero dell’Interno). Che cosa è avvenuto invece sulle rotte terrestri? Anche quest’anno, come sempre e inspiegabilmente, il ministero non rende invece noti i dati degli ingressi dalla rotta balcanica che sono comunque in aumento. Vanno presi con molta cautela i dati degli attraversamenti cosiddetti “illegali” registrati da Frontex lungo la rotta balcanica nel periodo gennaio-agosto 2022 con un aumento del 190% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Si riferiscono infatti al numero degli attraversamenti (che possono avvenire più volte a causa dei respingimenti) e non invece alle domande di asilo. Dal mio osservatorio di Trieste posso comunque confermare l’aumento degli arrivi al confine italo-sloveno che tuttavia al momento stimerei finora attorno al 30 o forse 40% rispetto al 2021, quindi un aumento netto ma non eccezionale e che, comunque, si attesta su alcune migliaia di persone, non certo numeri da capogiro.

Se guardiamo il quadro europeo nel suo insieme vediamo che in tutta l’Unione europea a fine 2021 (fonte Eurostat) le nuove domande di asilo presentate nel corso dell’anno erano state 623.315, con un aumento del 25,3% rispetto al 2020 (anno che va considerato alquanto anomalo a causa della pandemia che ha frenato a livello globale ogni forma di migrazione). Con 53.610 domande, pari all’8,2%, l’Italia è il quarto Paese Ue, con netto stacco dopo Germania (27,7%), Francia (19,4%) e Spagna (11,6%).

Come si può vedere dalla seguente tabella, in Europa ci sono appena 1.196 richiedenti asilo per milione di abitanti, con forti variazioni di incidenza tra i Paesi membri. All’interno di questi numeri modesti l’Italia ancora una volta si colloca, nonostante la sua posizione geografica, al di sotto della meda dell’Ue.

Da una valutazione complessiva dei dati sopra indicati risulta difficile sostenere che l’Italia stia vivendo una situazione di particolare emergenza, sia via mare sia via terra, per ciò che riguarda il numero di arrivi dei migranti e dei richiedenti asilo in particolare. Eppure le dichiarazioni politiche, non solo a destra, presentano un quadro catastrofico che ha come scopo quello di alimentare la paura tra i cittadini. Le immagini della saturazione del centro di Lampedusa per inerzia nei trasferimenti hanno fatto fin troppo clamore e sono state usate per poter urlare a una inesistente invasione quando esse sono invece causa di un reale e grave problema di cui nessuno vuole parlare, ovvero il non funzionamento del sistema pubblico di accoglienza, del tutto sottostimato rispetto alle esigenze ordinarie dell’Italia.

Un aumento contenuto degli arrivi che si è verificato nell’estate 2022, via mare e via terra, e che avrebbe dovuto essere gestito senza particolari problemi, ha invece fatto esplodere il sistema pubblico di accoglienza italiano, già largamente inaccessibile a chi arriva nel territorio nazionale al di fuori delle operazioni di soccorso, in aperta violazione delle disposizioni della Direttiva 2013/33/Ue. Per evitare che il sistema di accoglienza possa diventare oggetto di analisi e quindi di fastidioso dibattito, il ministero dell’Interno ha scelto come strategia quella di non pubblicare i dati sul reale bisogno di accoglienza, non rendere nota la programmazione annuale e persino ostacolare chi cerca di analizzare la realtà (si veda sul punto il report Openpolis del 23 luglio di quest’anno sulla reticenza del ministero dell’Interno).

Se il silenzio omissivo è il tratto generale che avvolge il sistema di accoglienza italiano, c’è un’area dove tale silenzio è ancor più fitto e dove tutto rimane pressoché invisibile e dimenticato dalla politica, dalla società e da larga parte degli organi di informazione. Mi riferisco alla situazione degli arrivi in Friuli-Venezia Giulia provenienti dalla rotta balcanica. A partire dal mese di luglio 2022, si sono quasi del tutto interrotti i trasferimenti dalle strutture di prima accoglienza di Trieste, Udine e Gorizia verso il resto del territorio nazionale. Ciò ha provocato una situazione grave di crescente pressione sul territorio friulano non in ragione di numeri eccessivi e neppure in ragione di una mancanza di posti di prima accoglienza, ma a causa del blocco del meccanismo dei trasferimenti che caratterizza necessariamente quest’area di confine. A Gorizia e Udine dove sono in uso grandi centri collettivi ricavati da vecchissime caserme piuttosto degradate, la soluzione tampone (anch’essa esauritasi) è stata quella di stipare all’inverosimile le persone nelle medesime strutture. Nella caserma Cavarzerani di Udine, la cui capienza è di circa 300 posti, sono state così pigiate 900 persone. “Un singolo e fatiscente bagno ogni cinquanta persone, fredde e umide brande ammassate una sopra l’altra, tendoni, posti letto ricavati da aree, anche all’aperto, in cui non erano previsti e in cui ora è difficile muoversi. Condizioni igieniche agghiaccianti” ha scritto il 17 settembre, senza essere smentita, la storica associazione Ospiti in arrivo di Udine.

A Trieste dove positivamente non vi sono mai stati grandi centri collettivi in quanto l’intero sistema di accoglienza, anche quello rappresentato dai centri straordinari, è orientato al modello dell’accoglienza diffusa assimilabile al Sai, l’effetto della mancanza dei trasferimenti dalle strutture di prima accoglienza ha paradossalmente prodotto conseguenze ancora peggiori in quanto i richiedenti asilo sono semplicemente stati abbandonati in strada, totalmente privi di alcuna assistenza: né letto, né cibo. Nulla. La città che fu di Franco Basaglia fin dal 2015 ha giustamente scelto di evitare la logica dei centri, avvertiti come una forma di istituzione totale, e ha allestito solo strutture di prima accoglienza a elevata rotazione (Casa Malala e l’Ostello Scout, per un totale a regime di 220 posti, oggi portati a oltre 350 con uso di tende nell’Ostello), puntando su una rete territoriale di quasi 200 appartamenti per realizzare un’accoglienza territoriale con standard elevati e orientata a consentire ai richiedenti asilo la massima autonomia e un inserimento sociale il più veloce possibile. I trasferimenti verso il resto del territorio nazionale, specie nei mesi estivi, della quota di coloro che, per mere ragioni numeriche, non possono essere assorbiti nella rete territoriale di accoglienza triestina, ha sempre dato ottimi risultati e ha permesso di gestire un numero di arrivi significativi negli ultimi sette anni, come si può vedere nei dettagliati rapporti statistici annuali sul sistema di accoglienza territoriale.

Dall’inizio della fase critica del blocco dei trasferimenti il Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste ha inviato ben otto segnalazioni formali alla prefettura (e per conoscenza alla sede per l’Italia dell’Unhcr). Nell’ultima segnalazione del 9 settembre si indicava un numero di almeno 273 richiedenti asilo privi di alcuna accoglienza costretti all’addiaccio, specie nella zona della stazione centrale, più della metà dei quali erano in quella condizione da 20 e 30 giorni e la loro stessa sopravvivenza materiale era affidata esclusivamente al soccorso portato dalle associazioni di volontariato. Il numero di persone indicato nelle segnalazioni è tuttavia da considerarsi sottostimato perché comprende solo coloro che sono stati intercettati in strada nelle attività di assistenza umanitaria mentre altri richiedenti, dopo avere manifestato la loro domanda di asilo possono non essere più visibili perché si sono nel frattempo spostati dal territorio in cerca di una soluzione di sopravvivenza, mentre altri ancora, consapevoli di non avere alcuna assistenza, si allontanano immediatamente sperando di trovare di meglio altrove.

A nessuna delle segnalazioni inoltrate da Ics è mai stato dato alcun riscontro, nonostante la drammaticità della situazione e la chiara violazione della norma da parte della prefettura competente e del ministero dell’Interno. La norma è infatti chiara nel disporre che, senza eccezioni, le misure di accoglienza si applicano “dal momento della manifestazione di volontà di chiedere protezione internazionale” (decreto legislativo 142/2015). La giurisprudenza italiana in materia di violazione delle disposizioni sull’accoglienza è ancora scarna ma la chiarezza della norma di diritto dell’Unione europea trasposta nel diritto interno non lascia spazio a diverse interpretazioni riguardo alla sussistenza dell’obbligo ad agire da parte della Pubblica amministrazione (Tar Veneto, 358/2019 e Tar Campania, 4738/2019). La giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani conferma che la violazione di tale obbligo configura una lesione di diritti inviolabili della persona cui spetta, oltre alla cessazione della condotta inadempiente, una tutela risarcitoria (si veda tra le altre la causa Mss. c. Belgio e Grecia, gennaio 2011).

Alla vigilia delle elezioni politiche è doveroso chiedersi se il collasso del sistema di accoglienza italiano sopra descritto che riguarda l’intero territorio nazionale, ma è più acuto proprio su quel confine triestino che vide nel 2020 l’illegale prassi delle “riammissioni informali”, avviene come non evitabile manifestazione di tale collasso, o è forse, almeno in parte, un meccanismo a orologeria collegato alle elezioni politiche, ovvero finalizzato ad alzare il senso di insicurezza, e quindi orientato a produrre un consenso a favore di quelle formazioni politiche estremiste che della logica della paura e della chiusura hanno fatto il proprio tratto caratterizzante. E che proprio nel centenario della marcia su Roma che portò l’Italia nell’oscuro ventennio fascista si candidano alla guida del nostro difficile Paese.

Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni. Già componente del direttivo dell’Asgi, è presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati Onlus di Trieste


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