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Famiglie Accoglienti al Parlamento europeo

Mercoledì 27 aprile al Parlamento Europeo c’è stato l’evento Moveurope. Tra i relatori anche il hostro Honorè Millimono. Qui di seguito la trascrizione del suo intervento 

L’attuale crisi umanitaria creata dalla guerra in Ucraina ci insegna che i paesi europei sanno essere solidali e sanno accogliere i rifugiati. Quello che abbiamo veramente imparato è una forma evidente di simpatia selettiva o compassione selettiva dei paesi europei.  Hanno categorizzato i rifugiati in 2 gruppi e non mi fermerò a dare una definizione perché molti giornalisti e politici famosi lo hanno già fatto. Parliamo della mobilità dei rifugiati nell’UE.  
Per i rifugiati di serie a la mobilità tra gli stati membri dell’UE è libera e facile, hanno solo bisogno di mostrare una carta d’identità o qualsiasi tipo di documento e possono muoversi liberamente e andare ovunque vogliano andare. Per accoglierli, in un breve lasso di tempo abbiamo visto tutti i paesi dell’UE fare di tutto per accogliere queste persone nel miglior modo possibile. È bello vedere questo tipo di solidarietà. L’unica domanda che mi viene in mente è: “Perché non lo stesso per tutti?”  Stiamo parlando di più di 3 milioni di ucraini.
Per i rifugiati di serie B le cose sono diverse e difficili. I principali punti di ingresso per loro sono: Italia, Spagna e Grecia. 

Quando i rifugiati arrivano in Grecia hanno solo una scelta da fare: chiedere asilo e aspettare il risultato della procedura.
Quando i rifugiati arrivano al porto d’ingresso in Italia, vengono immediatamente trasferiti in uno dei centri di prima accoglienza e lì hanno due scelte da fare. Una è quella di chiedere asilo e la seconda è quella di dire che vogliono chiedere asilo in un altro paese. 
Quando fanno domanda d’asilo significa che possono uscire dal paese in cui fanno domanda fino al permesso di soggiorno, e inoltre non potranno fare domanda d’asilo in altri stati membri dell’UE. 
In Italia, coloro che hanno deciso di non voler fare domanda d’asilo in Italia vengono semplicemente mollati senza alcun tipo di supporto e sappiamo cosa succede alla fine.

In molti paesi dell’UE specialmente il principale punto d’ingresso, le politiche di accoglienza e integrazione dei rifugiati, le varie leggi che impediscono ai rifugiati di spostarsi tra i paesi europei, la lentezza della procedura d’asilo, la difficoltà di trovare lavoro e molto altro, impediscono a molti giovani rifugiati di realizzare i loro sogni o avere una vita attiva nelle varie comunità in cui si trovano. Per esempio, a Moria (Grecia) dove si trova uno dei più grandi centri di accoglienza. Le condizioni dei migranti sono una catastrofe ma sembrano normali perché le persone che vivono in quei centri non sembrano abbastanza europee.

Un altro esempio è la mia esperienza personale.
Sono arrivato in Italia nel 2016, ho fatto domanda di asilo, dopo un anno e 6 mesi di attesa per la regolarizzazione, ho ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Questa notizia invece di rendere facile la mia integrazione è diventata l’inizio di una vita ancora difficile. Se prima avevo un posto dove dormire, questa notizia ha cambiato tutto. Subito dopo aver ottenuto il permesso di soggiorno mi è stato detto che la mia permanenza nel centro di accoglienza era giunta al termine. Sono diventato un senzatetto per molto tempo. Nel 2020, il governo ha deciso di abrogare il permesso di soggiorno umanitario. Ho dovuto cambiare il tipo di permesso di soggiorno da motivi umanitari a un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Purtroppo non ho mai trovato un lavoro stabile a causa della mia situazione. Ho pensato di cambiare paese, visto che parlo bene il francese volevo andare in Francia o in Belgio, ma avendo il permesso di soggiorno per motivi umanitari potevo lavorare solo in Italia; negli altri paesi potevo andare solo per un breve periodo di 3 mesi, infatti sono andato in Francia per un mese, poi ho capito che non era possibile lavorare con i documenti che avevo, quindi sono tornato in Italia. Fortunatamente per me ora le cose sono diverse, perché nel gennaio 2021 sono stato accolto in casa di una famiglia italiana. Molti giovani  rifugiati, in mancanza di una politica comune europea che non permette loro di integrarsi, hanno vissuto o stanno vivendo esperienze estremamente traumatiche per lunghi periodi di tempo e questo lascerà il segno su di loro molto a lungo.

Storie di accoglienza: da Myolaiv a Bologna con il…

Sulla lavagna della cucina col gessetto Martin ha scritto, che in italiano vuol dire torta.
E poi , che tradotto viene fragola. Martin ha 8 anni e arriva da Mykolaiv, città ucraina del sud, porta d’accesso a Odessa, a poca distanza dalla linea del fronte e costantemente sotto i bombardamenti russi. Il 28 marzo scorso il palazzo del governatore è stato colpito dai missili in pieno giorno. Sotto le macerie sono rimaste 36 persone.

Con sua madre Camilla, Martin è scappato dalla guerra e dalla distruzione ed ora è ospite in una bella casa di Bologna. Lui e la mamma sono stati accolti da Luca e Cristina, una delle tante coppie dell’associazione Famiglie Accoglienti che si sono mobilitate per fare fronte ai profughi arrivati dall’Ucraina nelle scorse settimane. “Abbiamo scelto il momento
giusto per andarcene. Sentivamo le bombe cadere di notte, così col bus siamo arrivati in Polonia e poi abbiamo scelto l’Italia un po’ per caso”, racconta Camilla, 43 anni, un buon inglese e poche speranze di ritornare presto in patria.

Per Camilla e Martin è un tempo sospeso quello italiano. Si guardano indietro, scampati al conflitto ma con parenti e amici rimasti bloccati laggiù, ed è il caso del fratello di Camilla. E pensano a cosa fare domani, “perché questa guerra non durerà poco. A Lugansk [nel Dombass, l’est dell’Ucraina] sono otto anni che combattono”. Nelle scorse settimane
Camilla si è presentata all’ambasciata canadese. La sua speranza è quella di volare presto dall’altra parte dell’oceano. Ma il Canada non è lontano dall’Ucraina? “E’ un buon paese, e si dice che stia accogliendo tanti di noi. Ma qui stiamo benissimo, siamo stati fortunati”, dice sorridendo Camilla.
Sorride a Luca e Cristina, seduti dall’altra parte del tavolo. Non è la prima volta che la coppia bolognese ha aperto le porte di casa e accolto qualcuno. E’ successo nel 2017 con Seedy, un ragazzo del Gambia arrivato appena maggiorenne e poi accompagnato negli anni verso l’autonomia abitativa e lavorativa. “Se ne è andato nel 2020 dopo aver trovato una casa e un lavoro a tempo indeterminato. Mi chiama mamma e ovviamente ci sentiamo
ancora” racconta Cristina.

Luca e Cristina hanno deciso di riprovarci. “Ci avevamo già pensato con l’arrivo dei talebani in Afghanistan e la caduta del governo di Kabul – dice Luca – ma i profughi non sono riusciti a raggiungere il nostro paese. Quando abbiamo capito che le cose in Ucraina stavano andando male, abbiamo deciso di dare la nostra disponibilità. Ed eccoci qui”.
Le cose di cui occuparsi sono tante, e riguardano soprattutto Martin. Che è stato inserito a scuola e ora frequenta il tempo pieno assieme a tutti i suoi compagni. Torta, fragola, grazie, ciao, buongiorno, buonasera e qualche altra parola. Per ora è questo il suo vocabolario ma sta imparando velocemente, e capisce già parecchio di quel che gli si dice.


“Sabato andrà in piscina per una lezione di nuoto”, racconta Cristina, che spiega di aver scritto una mail alla società sportiva raccontando la storia di Martin e di avere subito ricevuto risposta. Considerando la situazione, ha detto la Uisp, per lui il corso sarà gratuito. E così Martin potrà tornare a nuotare, come faceva tre volte a settimana a Mykolaiv, prima che le bombe russe iniziassero a distruggere tutto quanto.
Cosa manca per l’inserimento di mamma e figlio a Bologna? “Le vaccinazioni le hanno fatte subito, gli abbonamenti al bus siamo riusciti a farglieli, anche se per ora li abbiamo pagati noi e poi ce li ha rimborsati il progetto Vesta”. Eppure Martin frequenta la seconda elementare, avrebbe diritto al bus gratuito come tutti i bimbi della città. Ma i tempi della burocrazia sono quelli che sono e Cristina allarga le braccia: “prima o poi dovrebbe anche arrivare anche un contributo economico per le spese di accoglienza”. Altra questione aperta quella dell’accoglienza e dell’integrazione a scuola. “Le cose stanno funzionando, ma tutto è basato sulla buona volontà delle maestre. Oggi, per la prima volta dopo più di
due settimane in classe, è arrivata per qualche ora una mediatrice in grado di parlare ucraino”.

Ad aiutare Luca e Cristina ci sono i professionisti del progetto di accoglienza Vesta, che forniscono un supporto generale su molti temi, e ovviamente tutta la rete della Famiglie Accoglienti. “Ci sentiamo spesso scambiamo esperienze e informazioni. Ad esempio ci stiamo tenendo molto in contatto con Maura e Santo, un’altra famiglia di Bologna che ha
deciso di accogliere una mamma e un bimbo ucraino”.

Nel frattempo, mentre Martin va a scuola – e al momento in Italia sono 16 mila i bimbi e gli adolescenti ucraini inseriti nel sistema scolastico – sua madre si prende cura del giardino dietro casa di Luca e Cristina. “Prima c’erano foglie e terra, ora ci sono un prato e dei fiori”, racconta Luca mostrando l’angolo verde.

“Seedy era venuto in Italia per diventare indipendente, questa volta invece la situazione è apparentemente più di stallo, non ci resta che aspettare per capire che piega prenderanno le cose, così come stanno aspettando loro”, continua Luca. “La vera differenza tra l’esperienza di Seedy e quella di Martin e Camilla è il sentimento che c’è nella società. Gli africani anni fa erano oggetto di propaganda politica xenofoba, oggi gli ucraini sono i
benvenuti. Un’ottima cosa, perché ci aiuta molto in tutte le questioni burocratiche”, spiega Cristina.
Non che sia tutto rose e fiori. Sul bus qualche giorno fa una signora ha iniziato a inveire contro Camilla, “perché – ha detto sbraitando – la colpa della guerra è tutta di voi ucraini”.
Un’opinione simile a quella della sorella di Camilla, che però vive nella Repubblica russa dei Baschiri, più vicino al Kazakistan che all’Europa. “Se la sento al telefono? Certo, ma non parliamo mai della guerra perché altrimenti litigheremmo. Lei guarda la tv russa ed è convinta che sia tutta colpa dell’esercito ucraino. Preferisco evitare di discutere con lei di
questo”.
In attesa del futuro, che sia ancora Bologna, il ritorno a casa o il Canada, c’è la vita di tutti i giorni. “Mi sento molto bene qui, è una bella famiglia e siamo stati fortunati”, dice Camilla.
Sabato sera sarà il momento del piatto nazionale ucraino, il borsch. “Lo cuciniamo tutti insieme”, dice Luca, “ma già con Martin abbiamo preparato ottime torte”.

Giovanni Stinco

Un dentista per tutti

Giovanni Stinco ci racconta l”apertura di un ambulatorio odontoiatrico che accetta tutti, italiani e stranieri, senza pretendere documenti e senza chiedere un euro a nessuno. Le foto sono di  Dario Maccariello

Michele è un signore di origine albanese che abita da anni a Bologna. Non ha una casa, e ogni notte dorme vicino al Meloncello, quell’arco del 1700 che dà il via ai portici che portano su verso i colli, fino al Santuario della Beata Vergine di San Luca. Come tanti altri homeless che in Italia sono nelle sue stesse condizioni, Michele non ha più un dente. Li ha persi tutti, letteralmente. Colpa della vita di strada: poche possibilità di curarsi, ancora meno di essere visitato da un dentista. Fra pochi giorni avrà “una bocca nuova”, una protesi mobile fatta dai dentisti e dagli odontotecnici volontari dall’ambulatorio di Làbas, il centro sociale che ha sede ex convento San Leonardo di Vicolo Bolognetti.

Aperto a marzo, l’ambulatorio odontoiatrico accetta tutti, italiani e stranieri, senza pretendere documenti e senza chiedere un euro a nessuno. Sono tante le persone che per la prima volta nella loro vita stanno riuscendo ad accedere a vere cure dentistiche, e nelle ultime settimane si sono aggiunte anche donne ucraine scappate dalla guerra.

“Ma per noi che che siano ucraine, italiane o africane non fa nessuna differenza, accogliamo tutti coloro che vengono da noi e che hanno bisogno”, spiegano i volontari del servizio, che nel suo primo mese di vita ha fornito cure e assistenza medica a una cinquantina di pazienti.

“Quello dell’ambulatorio dentistico è stato un sogno che abbiamo coltivato per anni – spiega Stefano Caselli, infermiere e attivista di Làbas – Da quando siamo arrivati in vicolo Bolognetti siamo riusciti a trovare gli spazi giusti, a reperire le attrezzature indispensabili e a coprire il resto della cifra necessaria all’allestimento dell’ambulatorio attraverso l’autofinanziamento. L’ambulatorio l’abbiamo messo completamente a norma, gli spazi sono stati adattati con lavori di muratori e abbiamo creato un servizio igienico per persone con disabilità”.

Il risultato è stato uno luogo perfettamente attrezzato, un vero studio dentistico dentro le mura di un centro sociale. Aperto con regolarità e senza barriere di ingresso di nessun tipo. A garantire il servizio 6 dentisti volontari, che si organizzano in due turni settimanali, il lunedì e il venerdì pomeriggio. Con loro anche due assistenti alla poltrona.

Filippo è uno dei sei odontoiatri che ogni settimana prestano la loro opera a Làbas. “Stiamo assistendo persone soprattutto del nord Africa, – racconta – persone con tantissimi problemi di salute, che fanno fatica ad accedere a quel che il sistema sanitario nazionale mette a disposizione a chi ha un Isee sotto gli 8 mila euro. Spesso ce ne scordiamo, ma c’è chi non ha un Isee, non ha una residenza e neppure i documenti”.

Foto di Dario Maccariello



Sono tante le cose da fare per far funzionare uno studio dentistico basato sull’opera volontaria di professionisti. Nonostante tutto resta il problema delle risorse: come pagare i consumabili, e cioè quei materiali che in ogni seduta vengono utilizzati e poi gettati via? E ancora: come pagare il costo materiale necessario alla costruzione di una protesi? Per il momento, spiega Filippo, i costi sono stati sostenuti con eventi di autofinanziamento dal basso, e con donazioni. Ma c’è anche l’idea, per ora allo stadio embrionale, di lanciare una sorta di “dentista sospeso”. Aprire cioè lo studio odontoiatrico di Làbas a tutti coloro che vorranno farsi la pulizia dei denti e che pagando (“prezzi popolari ovviamente”) aiuteranno a coprire le spese generali.

Foto di Dario Maccariello



“Siamo orgogliosi di questo esperimento che si inserisce all’interno del nostro progetto Laboratorio di Salute Popolare”, dice Tommaso Cingolani di Labas, che sottolinea come ormai il centro sociale sia diventato ormai qualcosa di più, una sorta di “municipio sociale” che dalle 8 della mattina alle 19 di sera, da lunedì a venerdì, ha sempre le porte aperte alla cittadinanza. Nato dal basso ma con forti legami istituzionali – lo studio dentistico è stato controllato e autorizzato dall’Asl – il Laboratorio di Salute Popolare ha un obiettivo chiaro: “Vogliamo favorire il diritto universale e incondizionato alla salute e al benessere”.

Nel Laboratorio non c’è solo il servizio dentistico: c’è anche lo sportello psicologico e quello infermieristico, ci sono le staffette che ogni settimana raggiungono 60 persone senza casa in città, c’è un servizio di accompagnamento a aiuto nell’affrontare la burocrazia sanitaria, anch’essa a volte un ostacolo verso il raggiungimento del diritto alla salute e alle cure.

Ultimamente, aggiunge Stefano Caselli, hanno iniziato a chiamare anche tanti italiani. “Ci raccontano di avere un reddito insufficiente per pagarsi le cure alla bocca, ci dicono di avere letto di noi su internet o sul giornale e chiedono aiuto. Se sono indirizzabili ai servizi del sistema sanitario nazionale lo facciamo, altrimenti li prendiamo in carico e gli diamo subito un appuntamento. Le telefonate sono continue”.
Giovanni Stinco

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