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Giornata mondiale del rifugiato

Oggi, 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. 

Poche ore fa l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha diffuso i dati aggiornati sui migranti forzati nel mondo. Il numero delle persone costrette a fuggire dalle proprie case (rifugiati inclusi) è il più elevato da quando si è cominciato a tenerne il conto.

Alla fine del 2021, infatti, gli “sradicati” erano 89,3 milioni, +8% rispetto all’anno precedente e oltre il doppio rispetto a dieci anni fa. Con l’invasione russa dell’Ucraina è stata superata la soglia dei 100 milioni.

C’è un elemento che resta però troppo spesso sotto traccia. Ed è il confronto tra l’aumento vertiginoso dei migranti forzati nel mondo e l’andamento piatto degli attraversamenti cosiddetti “irregolari” delle frontiere dell’Unione europea, ovvero l’unico “canale” d’ingresso rimasto di fatto per le persone in transito. 

È una fotografia impietosa della strategia di chiusura, esternalizzazione, confinamento e respingimento di decine di migliaia di persone messa in atto in questi anni dai governi dell’Ue, compresa l’Italia. Mentre “fuori” il mondo era ed è sempre più in fiamme.

Su Altreconomia ce ne occupiamo da tempo, pubblicando inchieste, reportage, approfondimenti, interviste, libri sui diritti umani alle frontiere.

Siamo convinti che sia lì, dalla parte dei diritti umani, che si debba stare, senza cedere alla propaganda.

Morire profugo e suicida a 19 anni. Tripoli vale…

Riportiamo qui di seguito una riflessione di Nello Scavo su Avvenire

Ci sono profughi e profughi.

Dipende dalla geografia? O da certe variabili cromatiche? Più l’epidermide è scura e più le loro sorti ci sembrano lontane, al punto da pagare di tasca nostra chi si incarica di tenerceli fuori dai piedi?

Mohamed era un profugo. Era scappato dal Darfur, non esattamente un posto tranquillo. Sognava l’Europa, ma si sarebbe accontentato anche di un trasferimento in un altro Paese africano sicuro individuato dall’Onu. Invece è rimasto incastrato in Libia. Torturato e abusato, come molti. Mohamed non se l’è più sentita di prestarsi ai giochi degli aguzzini di Stato stipendiati in euro. Ha preso una corda, ha fatto un giro intorno al collo. E si è lasciato andare. Aveva 19 anni.

Tripoli dista 1.000 chilometri esatti da Roma. Kiev quasi 1.800. All’Ucraina l’Italia invia armi. Anche alla Libia. Nel primo caso, per sostenere l’esercito che combatte l’aggressione di Mosca. Nel secondo, per impedire a profughi e migranti di raggiungere le nostre coste. Mohamed era uno di loro. Veniva da una provincia del Darfur, regione di mattanze per le quali a marzo, nel pieno della crisi ucraina, si è aperto un processo davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja. Mohamed era nel campo di prigionia di Ain Zara, uno di quelli tenuti in piedi dalle autorità generosamente sostenute da Roma e Bruxelles.

Anche la giustizia internazionale è gradita a giorni alterni. Quando Karim Khan, il nuovo procuratore dell’Aja, ha inviato gli investigatori in Ucraina, gli uffici stampa di leader politici e capi di governo europei hanno dovuto fare gli straordinari per inviare dichiarazioni alle agenzie di stampa, inondare i social di commenti, rilasciare interviste a sostegno della giusta causa contro i crimini di guerra commessi in Ucraina.

Quando, negli stessi giorni, sempre Khan consegnava al Consiglio di sicurezza Onu il suo rapporto sulla Libia, la reazione è stata il silenzio. Non per indifferenza. Ma per lasciar cadere le accuse. Eppure era solo aprile: «Gli abusi contro i migranti – si leggeva nel report dell’Aja – possono essere qualificati come crimini di guerra e crimini contro l’umanità ». Perché non ci fossero dubbi sulla corretta interpretazione, Khan parlava di «crimini commessi nei centri di detenzione». Strutture ufficiali sotto il controllo del governo. Quello di Ain Zara è tra i principali. Sono rinchiusi a migliaia, rastrellati dalla sbirraglia e consegnati al Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione. Uomini, donne e bambini. Non fa differenza.

Leggi tutto l’articolo su Avvenire.it

Interporto di Bologna. La videoinchiesta

La videoinchiesta è di Libera Bologna. Il bel progetto e le interviste sono di Andrea Giagnorio e Sofia Nardacchione. Le riprese e il montaggio di Cecilia Fasciani

Diritti troppo spesso violati, tutele che si abbassano, incidenti sul lavoro, spostamenti pericolosi per migliaia di lavoratori e lavoratrici. L’#Interporto di Bologna, di fatto una piccola città – per dimensioni e numero di persone che ci lavorano – alle porte del capoluogo emiliano, rappresenta parte dei problemi dell’intero settore della #logistica.L’inchiesta di Libera Bologna in tre capitoli – il lavoro, gli spostamenti e il futuro verso una logistica etica – racconta l’hub logistico, attraverso le storie di chi ci lavora e con un’attenzione verso le infiltrazioni mafiose e criminali. Un video dedicato a Yaya Yafa, interinale morto di lavoro a ottobre, al suo terzo giorno in Interporto.

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